domenica 19 dicembre 2010

Il trash del trash: A Shot at Love with Tila Tequila


“A Shot at Love with Lila Tequila”
Ci si lamenta del Grande Fratello, che tutto sommato non è che un’ammucchiata di nullafacenti smutandati che passano il tempo a parlarsi addosso. Gli americani, come spesso accade, sono oltre da un pezzo, come ben sa chi s’imbatte a ore strane nella programmazione di Sky. Immaginate una nana sciantosa, un po’ orientale un po’ pellerossa, cantante quanto basta per non cantare, perennemente inguainata in sgargianti vestitini mignon, in grado di flirtare anche con una mensola di sesso non pervenuto, e avrete Lila Tequila, vero nome non so, celebrity sconosciuta da noi, ignoro la situazione oltreoceano, ma nel programma è la star.
Due gruppi, uomini contro donne, passano allegre giornate in compagnia della scaltra fanciulla, che, tra una cena in piscina e una gara di lavaggio macchine, spezza cuori in entrambe le categorie finché di partecipanti ne restano soltanto due: il lui e la lei che l’hanno fatta innamorare di più, perché Tila si innamora ogni volta, poverina.
Licenziato il resto della masnada, sarà solo uno colui, o colei, che si vedrà consegnare la chiave del suo cuore (una chiave in plastica lunga mezzo metro per l’esattezza).
E’ un programma estremamente educativo: non ci si manda a fancù in romanesco e si parla moltissimo di sentimenti, come si evince dalla voce narrante di Tila, che ci rende partecipi di tutti i moti del suo animo, o durante le visite surreali alle famiglie dei candidati-fidanzati, durante le quali Tila, che è una ragazza spiritosa, finisce per improvvisare una lap dance in braccio al prozio novantenne.
Tutti si amano molto, insomma.  
Ma qui c’è del mestiere invidiabile, che non è quello più vecchio del mondo ma soltanto sana professionalità made in Usa. Finzione per finzione, ridicolo per ridicolo, l’homo stravaccatus del Grande Fratello diventa qui, di default, l’homo zerbinus della nana malefica,  o la femina rabiosa in contesa con altre femmine per il possesso della minimaliarda.
La sensazione finale è di leggerezza, una bolla di sapone dalle mille sfumature, un frappè di finta introspezione dove il fine evidente è quello di esibire qualche momento porno soft, una scenetta con bacio lesbo davanti al decanter, l’occasionale mutanda che fa capolino nei momenti drammatici, quando il partecipante non si cura più di certi dettagli perché il suo cuore è troppo affranto dalle prove imposte da Tila.
La sapiente regia prevede perfino lo smacco della protagonista: congedato lo zerbino di turno, che esce di scena dichiarando cose tipo “Rimarrò per sempre il tuo orsacchiotto”, Tila consegna la fatidica chiave a una bionda statuaria che si commuove e dice no, che non è pronta per questo tipo di relazione, e non intende farla soffrire. Tila subisce l’affronto con le lacrime agli occhi ma non troppo per non disfare il terrapieno di rimmel, fa un discorsetto sull’essere stata “di nuovo lasciata”, si chiede "ma che cos'avrò di strano io, che non mi vuole nessuno", e se ne va nella notte,  lasciandosi alle spalle la scalinata fluo dove la vichinga affranta, il miniabito arrivatole ormai a livello nuca, piange in ginocchio, jolanda a vista, appollaiata su un tacco 30.

venerdì 17 dicembre 2010

prova prova prova prova

O-oh: mi è semblato di sentire un gesso...

Oh-o: mi è semblato di sentile un gesso
Il doppiaggio di  True Blood
Nota introduttiva: questo brano, particolarmente acido, è opera della maestrina dalla Penna Rossa, che è simpatica come un limone verde.
Tradurre è sempre un po’ tradire, dicono. Quando poi ci si mettono anche le pronunce scorrette, il gesso corre sulla lavagna. Basta seguire una serie straniera in lingua originale per rendersi conto di questa ingombrante verità. Un esempio mirabile è offerto da una nota serie sui vampiri in onda su Hbo: True Blood. La versione originale non doppiata è un capolavoro linguistico denso di turpiloquio sincero e ruspante, talmente sopra le righe da sfondare (volutamente) nella parodia.
Il doppiaggio italiano, in questo caso, non solo appiattisce la recitazione fino a farla sembrare recitazione, per l’appunto, ma arriva a snaturare alcune parole ricorrenti attraverso pronunce sbagliate che rendono il tutto piuttosto ridicolo, mistificando il valore dell’intera serie. Un esempio? Il nome della protagonista, la cameriera Sookie Stackhouse, vivace fanciulla concupita da tutti gli esseri sovrannaturali nel territorio di ben due Stati, in grado di captare i pensieri della gente e perciò moralmente sospetta in un paesino dove peraltro nessuno riesce a farsi gli affari propri.
 Interpretata dall’ottima Anna Paquin, già premio Oscar per Lezioni di Piano (1994), Sookie – già gravata del suo handicap di telepate - soffre altresì di un cognome pericoloso: quel che in inglese suona, correttamente, “Stæckhouse”, con la “a” della prima sillaba pronunciata come una “e” aperta, nella versione italiana la stessa “a” diventa ostinatamente una “ei”: in sintesi, “Suki Steikaus”, cioè Sookie Griglieria. E la ragazza lavora in un pub.
Ma ci sono esiti anche peggiori, che toccano addirittura lo spiritus loci. Il ridente paesino della Lousiana sprofondato tra le paludi, ricorrente teatro di turpi delitti, ha, come da tradizione, un nome francese: Bon Temps. Che, con chiaro intento ironico, richiama presunti “bei/buoni tempi” (quali? L’epoca degli schiavi? Il tempo in cui uccidere un vampiro non costituiva reato?). Brava gente, quelli di Bon Temps: del partito “da noi certe cose non succedono”, e invece ne fanno peggio di Bertoldo. Nella versione originale la pronuncia è correttamente e gallicamente nasale: bon-tom, con l’accento su “tom”. In italiano è reso con un sonoro, offensivo bontemps. Dove tutte le consonanti sono pienamente pronunciate e le nasali non esistono. BONTEMPSS. Forse chi dirige i doppiaggi è intimamente convinto che noi italiani siamo così scemi da non riuscire a capire cosa si sta dicendo, quando siamo esposti a una pronuncia corretta. E non è finita. Per eccesso di zelo mal riposto, il semplice nome di uno dei protagonisti, il vampiro Bill Compton, diventa inspiegabilmente “Bill Caampton”. Ma perché? Chi l’ha detto? Campton un accidente.
Veniamo all’assegnazione dei doppiatori: qui la pecca non è del doppiatore, ovviamente, ma di chi distribuisce i ruoli. Ogni appassionato di serie tv conosce il dramma di vedersi sostituire il doppiatore abituale di un personaggio. Figuriamoci lo sgomento di chi, dopo aver apprezzato la recitazione originale, si ritrova non solo con una pronuncia discutibile, ma anche con una voce che non c’entra niente con quella dell’attore d’origine.
Ancora una volta la versione italiana di True Blood fa acqua da tutte le parti: Sookie, che sa essere una discreta tritaballe, ha una voce spaesata da Cappuccetto Rosso, con una perenne inflessione interrogativa da Orsolina insidiata. Lo scenografico Eric, interpretato da Alexander Skårsgard, ha un tono basso, insinuante e sexy. Nella versione italiana è stato assegnato a Gianluca Crisafi, che, nonostante l’indubbia professionalità, non ha niente a che spartire con Eric, rischiando anzi di far sembrare un ragazzino petulante e vagamente maniaco quello che è un super non-morto di mille anni suonati. Identico problema per il già citato Mr Bill “Caaampton”, doppiato da Fabio Boccanera (bravo anche lui, ma inadatto): la voce arrochita dell’antico gentiluomo del sud si trasforma in un prudente logos da ingegnere, snaturando l’accento di Bill, così particolare nella serie da essere oggetto di battute metanarrative all’interno della serie stessa (celebre la scena in cui Sookie gli fa il verso).
Bill condivide, tra l’altro, il doppiatore con il Sawyer di Lost, altro biondo da competizione, dalla voce profonda e la pronuncia strascicata, che in italiano, poverino, si trasforma una specie di adolescente con problemi nei confronti dell’autorità.
Una pronuncia corretta e una voce adatta non sono dei frivoli “plus”, ma componenti essenziali di uno show televisivo. Se la situazione dei doppiatori nel nostro Paese non è delle più felici – ed è un peccato – bisognerebbe almeno riconciliarsi all’idea che una pronuncia corretta esiste, e che non sarebbe male adattarsi.
Firmato: La maestrina dalla Penna Rossa

La versione italiana.

E la versione originale.

Recitar cantando, soprattutto la prima

 

RECITAR CANTANDO, SOPRATTUTTO LA PRIMA
Circola in rete dal 2008, ma è solo da una decina di giorni che viene usato regolarmente per spaventare i bambini che non vogliono andare a dormire. “E’ la tua e la mia dignità”, dice la canzone. La loro certamente no. Stiamo parlando del gruppo di politici del Pdl imbarcatosi in un’impresa canora da far impallidire perfino la performance di Emanuele Filiberto allo scorso Festival di Sanremo. Uno dice: impossibile. E invece sì. Il coretto incriminato, composto da noti personaggi del jet set… pardon, della scena politica italiana, tra i quali Renato Schifani, Denis Verdini, Daniela Santanché, Ignazio La Russa, Clemente Mastella, Maurizio Letta e Sandro Bondi, è nato nel 2008 per sponsorizzare l’ “Associazione privata di fedeli “Progetto Gemma”- Adozione prenatale a distanza”, il cui scopo è aiutare le madri in difficoltà a portare a termine la gravidanza. Sorvolando sull’involontaria ironia della denominazione dell’associazione (come, “privata di fedeli”? e allora chi rimane? E se è così privata, come mai esponenti del Governo si sentono chiamati a sponsorizzarla?), non si può restare indifferenti di fronte allo spottone anti aborto e anti eutanasia, riemerso a pochi giorni dalle critiche alla partecipazione di Welby a “Vieni via con me”, in cui i sopracitati politici si misurano con un testo evidentemente al di sopra delle loro possibilità, composto da Bondi in un momento di particolare indigenza linguistica e populismo concettuale. Il titolo della canzone è, naturalmente, “Per la vita”.  
L’impressione globale dopo aver visto il video è quella di una parodia di programmi tipo Ciao Darwin o Chi ha incastrato Peter Pan. Perché uno pensa: no, dai, non è possibile, si vede che non ci credono. Chi mai può averli costretti a questa umiliante performance? Che cosa gli hanno fatto balenare per costringerli a questa esilarante autoesposizione? Le stecche a ripetizione del sindaco di Roma Alemanno sono niente rispetto ai guaiti del presidente del Senato Schifani, all’afonia conclamata del ministro della Cultura Bondi, al sorriso un po’ incredulo di Clemente Mastella (per la serie “vuoi vedere che riusciamo a prenderli per il culo anche stavolta?”), alle mossette della Santanché abbracciata a quel diavolone del ministro della Difesa La Russa, l’unico davvero convinto perché tanto il ragazzo ha talento scenico, e basta fare casino che lui si diverte, poco importa che sia un saggio di Natale o un revival anni Ottanta al Patuscino.
Gli esimi madrigalisti hanno per le mani uno di quei testi che non si dimenticano. “Vita è la libertà, vita è la creatività, è il sorriso che tu mi fai, è la mano che tenderai”. Non solo: vita è l’amico che non frequenti, ma che poi, quando serve, “è già là”. E’ la mia e la tua dignità, dicevamo, ma anche passione e, attenzione, “complicità”. E’ un bambino che mangia un panino… no, un bambino con un pallone nel cortile di una città (citazioni dotte da Vecchioni e Romina Power). E’ – e qui sono in gioco potenti figure retoriche, che uniscono una virtù a una sensazione visiva, una personificazione a uno stimolo ottico – “lo sguardo della bontà” (nemmeno nella sigla di Candy Candy si era giunti a tanto). E’ audace sincerità, la luce che nasce dopo l’oscurità, taratatatatà. Senza dimenticarci che “la vita è libertà”, solidarietà, bla bla bla. E’ “un mondo migliore da costruire insieme io e te”. Eh? Ma soprattutto, ricorda paternamente Mastella, “è il più grande dono che hai”. E vabè.  
Si può dire molto circa la tendenziosità delle teorie lombrosiane, ma una cosa è innegabile: l’uomo politico, salvo qualche caso, è positivamente brutto. Quando poi è brutto, non sa cantare ed è palesemente imbarazzato dalla sua stessa canzone, l’effetto è quello di un terrificante autogol. Con l’aggravante che i gorgheggianti parlamentari sono accompagnati da un coro di bambini, innocenti per definizione, loro sì intonati: un caso da Telefono Azzurro.

Neve


Forse sono stata un cane da slitta
O un lupo delle foreste boreali
O semplicemente una parte del grande silenzio
Perché davvero questo amore di neve
E’ qualcosa d’incomprensibile,
Questa gioia di correre nel candore,
Gridare nell’aria ovattata.
Forse solo il ricordo di un tempo perfetto
O almeno del suo desiderio;
Nonostante l’incertezza del meteo
Continuo a credere nelle fate
E c’è in me un agitarsi di gente allegra
Se nel  mistero del mattino
Vedo scendere una manna stellata.