venerdì 18 febbraio 2011

Inno per le esequie di un ideale

Non mi piace l’Inno di Mameli, non mi è mai piaciuto. E’ una questione di gusti. Non mi piace il ritmo da marcetta, non mi piacciono frasi come  “schiava di Roma Iddio la creò”, non amo il riferimento a elmi e condottieri, la prontezza auspicata, retorica per noi ma molto concreta per chi lo scrisse, a dare la vita per la cosiddetta patria. Il testo è ritmico ma raffazzonato, e lascia un involontario retrogusto fascista. Chi ha proposto di sostituirlo con il Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi ha colto l’esigenza fondamentale di un inno nazionale è cioè quella di creare una melodia bella e solenne, che unisca  chi la ascolta in un sentimento comune, un afflato poetico che ci rende uguali, almeno nel momento della cantata.
Ieri Roberto Benigni, dopo aver fatto irruzione sul palco dell’Ariston su un magnifico cavallo bianco, redini in una mano, Tricolore nell’altra, ha cercato di evocarlo, questo sentimento comune, raccontandoci come è nato l’inno, chi fosse il suo autore, in quali tragiche ed eroiche circostanze morì. Un intervento importante, specie in un’Italia “minorenne” che non ha il coraggio di guardarsi in faccia, un’Italia minorata in cui l’intelligenza politica sembra identificarsi nella disponibilità a farsi corrompere, a tutti i livelli. L’Italia dove se non freghi nessuno sei un patetico scemo, l’Italia dei furbetti da quattro soldi che però di soldi ne fanno moltissimi. L’Italia che piega ogni legge e principio a favore del potente di turno, l’Italia dei doppi e tripli incarichi, dei finti invalidi e dei giovani senza lavoro tacciati di essere bamboccioni, a fronte di tanti mangiapane a ufo rimasti in carica per trent’anni, tuttora golosamente seduti in Parlamento (De Mita vi dice qualcosa? Mastella?) e tutt’altro che ansiosi di mollare le loro comode, e disertate, poltrone. Quindi sì: ridare dignità all’Inno di Mameli facendolo conoscere a tutti è un atto di fede, di autentica gentilezza verso un Paese stanco di ignoranza e stupidità.
Quando Benigni si è messo a cantare, in un sussurro, i versi di Mameli, perfino la maestrina dalla penna rossa ha avvertito un brivido. Perché Benigni stava cantando al funerale di un’Italia che forse non è mai esistita: le esequie di un ideale.
Pars destruens. Non posso pagare qualcuno, per quanto geniale, mezzo milione di euro per farmi commuovere. Inoltre, nel suo entusiasmo, Roberto ha dovuto sorvolare sugli eccidi e le mostruosità compiute su tante popolazioni della Penisola in nome di un’unità che non tutti hanno desiderato. Onore a Mazzini, onore a  Garibaldi, gente che ci ha messo la faccia e il cuore, così diversi dalle facce da culo che ci tocca vedere ogni giorno in tv. Ma l’Italia nasce divisa, una babele di lingue e misure, tutti orgogliosamente “diversi” (Il birraio di Preston di Andrea Camilleri illustra molto bene la questione, esponendo il lettore al rischio di sbudellarsi dal ridere attraverso i dialoghi surreali di piemontesi, siciliani, toscani e veneti che all’indomani dell’unità hanno serissimi problemi di comunicazione). E’ Storia: ci sono cicatrici che stentano a rimarginarsi. Al Sud, e anche al Nord. Va bene un discorso che cerchi di fare appello a una coscienza nazionale: ma non ricordare che, per tanta gente, essere annessi contro la propria volontà non è stato esattamente a piece of cake, evoca una retorica che non riesco ad apprezzare fino in fondo.  Terza pecca: la lunghezza dell’intervento. “Less is more”, perfino in tv.
Immagino che dopo l’impegno di ieri, questa sera torneremo all’allegra cazzonaggine italica di sempre.  Tranquilli: è tempo di paillettes.

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